La definizione di “specie commestibile” è la più importante e al tempo stesso la più complessa. In questa sede non può ovviamente essere adottata la definizione utilizzata da Sitta & al. (2020), ove ai fini dello studio della casistica di intossicazioni si consideravano commestibili le specie ritenute tali dai consumatori. Numerosi testi inseriscono, fra i parametri utili per definire la commestibilità delle specie, anche quelli organolettici o estetici (odore, sapore, consistenza, dimensioni, ecc.). Tale scelta, nel tempo, ha creato visioni distorte della commestibilità dei funghi, in molti casi dettate da gusti personali o dall’impostazione etnomicologica di un dato territorio (quello di provenienza degli Autori delle pubblicazioni) e spesso ignorando gli usi e le tradizioni di altre regioni italiane o di altri Paesi europei, nella convinzione che la commestibilità delle specie di macrofunghi debba dipendere primariamente da fattori di sicurezza alimentare e di utilizzo tradizionale. Le medesime ragioni ci portano a non utilizzare neanche il parametro “rarità”, che invece alcuni Autori inseriscono fra quelli che portano a giudicare una specie “non commestibile perché da non raccogliere”. Senza voler entrare nel merito di quando una specie sia da considerare rara o quando sia invece soltanto localizzata e specifica di determinati ecosistemi (nei quali può essere anche comune, sebbene assente in tutto il rimanente territorio), è infatti acclarato che la raccolta degli sporofori non è ciò che porta alla rarefazione delle specie di macrofunghi.
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